Il nobile contenimento dell’uovo
Per anni ho confuso l’amore con la fame.
Credevo che per essere amata dovessi offrirmi come un pasto caldo: casa, corpo, ascolto, silenzio, perdono.
Aprivo le porte, sfornavo dolci, servivo sorrisi anche quando avevo le ossa vuote.
Gli uomini arrivavano affamati e io mi lasciavo mangiare a poco a poco — finché non restava che un odore nell’aria, come dopo il pranzo della domenica.
Ero convinta che dare tutto fosse nobile. Che svuotarmi fosse la prova suprema dell’amore.
Ma amare, così, è un atto di sparizione. Si diventa contorno della vita altrui, rumore di fondo, odore che svanisce nei vestiti.
Ho impiegato anni per capire che il confine non è freddezza: è calore che si protegge. Che l’intimità non nasce dal condividere tutto, ma dal conservare un nucleo intatto dentro di sé.
Come un tuorlo, dentro l’albume.
Stamattina ho rotto due uova in un piccolo tegamino. Le ho guardate cuocere piano, il bianco che si ferma al bordo, il giallo che resta vivo al centro. Un cerchio dentro un cerchio.
Ho capito che volevo essere così: tenera ma integra, morbida ma non dispersa. Un cuore caldo che pulsa nel suo spazio, e non una sostanza che cola ovunque pur di piacere.
L’amore vero non ti chiede di scioglierti, ti insegna a restare. Non pretende che tu rinunci a te per far posto a lui: apparecchia accanto, non sopra.
Ti rispetta anche quando chiudi la porta e hai bisogno di silenzio. Ti lascia cucinare nella tua padella, al tuo fuoco, al tuo tempo.
Non voglio più sparire dentro un sentimento. Voglio amare da donna intera, con il mio ritmo, la mia fame, la mia misura. Voglio una casa con due sedie e due piatti, non un altare dove uno dei due si sacrifica.
E mentre il tuorlo si rapprende lentamente, mi prometto di restare. Nel corpo, nella voce, nel desiderio. Nel mio spazio sacro.
Non voglio più sparire nei piatti altrui. L’amore che verrà non mi mangerà viva.
Cucineremo insieme, ognuno con le proprie mani — e questo, forse, sarà finalmente un banchetto dove tutti ne usciranno sazi.



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