kitchen Witchery in azione


Ci sono sere in cui la magia non si annuncia con candele, incensi o parole solenni. Arriva mentre ci si trascina ai fornelli stanche, svuotate, con il desiderio segreto di un sollievo che non si riesce più nemmeno a nominare.

Eppure, proprio in quei momenti nasce la magia più antica: quella che abita la cucina, la casa, il corpo.

Questa è la storia di una di quelle sere. Una sera qualunque — e proprio per questo straordinaria

Ero esausta, una di quelle stanchezze che non chiedono solo riposo, ma un gesto di grazia. Quel punto di non ritorno in cui ti dici -piu' di così lascio in mano a Dio-.

Ho preparato un piatto di pasta semplice, l’unica cosa che il corpo mi chiedeva: nutrirmi, scaldarmi, tenermi viva.

Mentre aggiungevo il sugo, ho sentito dentro di me un impulso chiarissimo: -metti un filo d’olio buono-.

Non un olio qualunque. Quello fatto in campagna, quello che profuma di foglie, sole e mani che lavorano la terra.

Per me, l’olio è un linguaggio divino: è unzione, benedizione, presenza. E così, senza pensarci, ho aggiunto quel filo d’oro liquido come si traccia un sigillo invisibile: un gesto che consacra, che invoca protezione, che apre uno spazio sacro. È stato un rito.

Un rito nato dalla stanchezza, istintivo, puro.

Ho mangiato quel piatto lentamente, quasi con devozione. E subito dopo, è accaduto qualcosa che non avrei potuto prevedere: una delle mie gatte nere — che si chiama Oya, come l’Orisha delle tempeste e dei cambiamenti radicali — è saltata giù da un mobile e ha rovesciato una bottiglia di vetro che conservo da almeno 3 anni.

Si è rotta. E là dentro c’era qualcosa che avevo completamente dimenticato.

Una bottiglia-rituale, creata dopo il divorzio, quando la mia vita era un campo di macerie e io cercavo un modo per non perdere la poca speranza rimasta. Avevo scritto i miei desideri — piccole richieste, timide, fragili — su fogli di carta a forma di cuore.

Li avevo immersi in una miscela di acqua, aceto, oli essenziali, erbe, capelli: un’incubatrice magica, un grembo improvvisato in cui tenere al sicuro ciò che non avevo la forza di far nascere.

Non ricordavo quasi nulla di quella bottiglia.

Eppure, quando si è rotta, il suo contenuto è uscito come un parto accidentale.

Il liquido aveva un odore strano, antico ma non marcio. E i fogli, dopo tre anni immersi, erano ancora integri. L’inchiostro perfettamente leggibile.

Questa è stata la parte più sconvolgente: i miei desideri non si erano dissolti. Erano rimasti conservati, immobili, come in un sonno rituale.

Nulla era morto. Nulla era andato perduto.

In quel momento ho capito che non avevo creato un incantesimo di manifestazione. Avevo creato un incantesimo di sospensione. Un utero simbolico. Una placenta magica in cui mettere ciò che non potevo ancora sostenere.

La bottiglia aveva custodito la me del passato.

E si è rotta nel momento esatto in cui io — la me del presente — era finalmente pronta a lasciarla andare. E l’ha rotta Oya, la dea che apre e chiude i cicli, colei che distrugge per far rinascere.

Che altro segno avrei potuto chiedere?

Molte persone pensano che la magia sia un gesto solenne, previsto, pianificato. La Kitchen Witchery, invece, è l’arte femminile che trasforma la vita quotidiana in un rito continuo.

Un filo d’olio versato in un piatto, una pentola che bolle, una finestra che si apre: sono strumenti sacri tanto quanto pietre, sigilli e altari.

Questa sera ho ricordato questo: la magia accade quando il corpo è aperto e sincero. Quando la stanchezza abbassa le difese. Quando chiediamo aiuto anche senza pronunciarlo. Quando cuciniamo come se cucinassimo un pezzo della nostra anima.

Il rito non è stato la bottiglia che si è rotta, né il liquido versato, né i fogli recuperati. Il rito è stato l’impulso iniziale: quel filo d’olio buono che ho sentito di dover aggiungere per chiamare il Divino nella mia cucina.

Tutto il resto è stato risposta.

Questa esperienza mi ha ricordato una verità che spesso dimentichiamo: la magia è intorno a noi, ma solo chi la percepisce può viverla.

La cucina è un tempio. E i gesti più umili possono aprire porte immense. Non serve prepararsi. Non serve essere “in forma”. Non serve avere tutto sotto controllo. Serve solo essere presenti. Serve ascoltare quel sussurro che dice: “Aggiungi un filo d’olio. Fallo adesso. Fidati.”

Perché quando la cucina diventa un luogo di ascolto profondo, le streghe non fanno magia: la magia le trova.

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